I dirigenti laureati in Italia sono un terzo rispetto all’Europa
Un manager laureato, come sottolinea anche uno studio di Bankitalia, tende ad assumere altri laureati. Mentre il dirigente meno istruito in genere diffida di quelli più preparati di lui.
Nella popolazione complessiva di età compresa tra i 55 e i 64 anni è laureato in Italia poco più del 10% (il valore italiano è vicino a quello della Turchia).
Andrea Cammelli, direttore del consorzio interuniversitario Alma Laurea, spiega:
“È una situazione che si riflette significativamente sui livelli d’istruzione della classe manageriale e dirigente italiana. I dati Eurostat segnalano che nel 2010 ben il 37% degli occupati italiani classificati come manager aveva completato tutt’al più la scuola dell’obbligo, contro il 19% della media europea a 15 e il 7% della Germania. Oggi 70 giovani italiani su 100, tra i diciannovenni, non si iscrivono all’università. Nella popolazione tra i 25 e i 34 anni di età, poi, solo il 21% ha la laurea.”. In Italia i manager con laurea o titolo superiore risultano il 15% della categoria, rispetto a oltre il 40% della media Ue. Nel “capitalismo di relazione” del sistema italiano conta la conoscenza diretta, in un paese dove oltretutto la formazione continua ad essere quasi sempre uno slogan. Tale “Capitalismo di relazione” è una forma di capitalismo in cui colui che ha la capacità di proporre verso chi ha il potere di decidere, o colui il quale ha la capacità decisionale, indica una persona di cui ha conoscenza diretta o che può in qualche modo fruttargli un tornaconto di vario genere.
Renato Cuselli, presidente dell’associazione Management Club e di Fondirigenti, nella presentazione del settimo “Rapporto generale sulla classe dirigente” afferma: “L’Italia è il paese dove le “conoscenze giuste” più che le competenze appropriate restano tra i principali elementi di accesso al mercato lavoro e alle possibilità di carriera, specie per le posizioni di maggiore responsabilità: il 30% degli italiani trova lavoro tramite amici e parenti”.
Il problema attuale in Italia è la “fuga dalla laurea”, per chi ritiene inutile investire sul proprio curriculum vitae; e l’altrettanto preoccupante “fuga con la laurea”, ossia l’ormai tristemente nota “fuga dei cervelli”, delle persone più promettenti e valide da un punto di vista sia teorico che pragmatico, che in casa loro soffrono particolarmente il fenomeno della “over-education”, vale a dire titoli troppo elevati rispetto alle possibilità di mercato.
All’interno dei luoghi di lavoro, questa situazione sfocia in una sorta di mobbing di default.
Prosegue Andrea Cammelli: “Un manager laureato, come sottolinea anche uno studio di Bankitalia, tende ad assumere altri laureati. Mentre il dirigente meno istruito in genere diffida di quelli più preparati di lui”. Eppure proprio le costanti rilevazioni di Alma Laurea mostrano che un laureato, rispetto a un diplomato, ha 12-13 punti percentuali in più quanto a chance di trovare lavoro.
Luigi Serra, presidente di Sistemi Formativi Confindustria e vicepresidente dell’università Luiss, analizza in questo modo la situazione: “Laurearsi serve comunque, in particolare per un manager. Oltre al migliore tasso di occupazione, il laureato ha anche una retribuzione media superiore rispetto a chi laureato non è. Ma è importante fare una considerazione generale: oggi il manager deve avere una prospettiva sovranazionale. Deve viaggiare e perseguire le opportunità migliori in un mercato vasto, a cui si accede con un livello di formazione molto qualificato”.
Il Capitalismo di relazione: cenni storici e conseguenze attuali
“Capitalismo di relazione” è una forma di capitalismo in cui colui che ha la capacità di proporre verso chi ha il potere di decidere, o colui il quale ha la capacità decisionale, indica una persona di cui ha conoscenza diretta o che può in qualche modo fruttargli un tornaconto di vario genere.
Il Capitalismo di relazione influenza tutta la vita italiana. La sua asfitticità, segnalata autorevolmente da storici e storici dell’economia, ha avuto un ruolo importante nella fine dello stato liberale e nell’avvento del Fascismo: l’industria pesante dell’epoca era, per fare solo un esempio, fortemente interessata ad avere un governo autoritario che annullasse i conflitti sociali e proteggesse, con adeguate misure, la propria produzione. Il fenomeno si è ripetuto nel secondo dopoguerra quando, anche nella fase della grande espansione dell’economia italiana, alla FIAT è stato accordato un regime di sostanziale oligopolio, diventato nei decenni monopolio esclusivo, le grandi banche d’interesse nazionale, prima a partecipazione pubblica poi privatizzate, (Commerciale, Credito Italiano, Banco di Roma e loro successori), lungi dall’avere un ruolo propositivo nello sviluppo dell’imprenditoria, hanno agito come “cinghia di trasmissione” delle impostazioni di Mediobanca.
La dimensione attuale del sistema produttivo nazionale, fortemente impoverita rispetto a trent’anni fa, vede ripetersi le stesse logiche. Si badi bene non stiamo parlando soltanto della sistematica violazione della legge praticata in vario modo da molti nostri imprenditori, di diverse dimensioni e tradizioni. Intendiamo riferirci ad una nozione più generale di opacità del sistema che è la cifra dominante, sia che si parli della partecipazione a gare d’appalto, sia che si guardi alle opportunità offerte da bandi di finanziamento nazionali e comunitari, sia che si tratti delle possibilità di accesso al credito.
E’ in questo contesto che i gruppi economici, diventati più forti grazie alle relazioni e non alla reali capacità, cambiano le proprie “missioni” accentuando la propria fisionomia finanziaria, eludono il controllo delle autorità preposte (peraltro assai poco incisive), non danno conto a piccoli e medi azionisti del loro operato, contraggono gli investimenti in innovazione e si concentrano sulla riduzione del costo del lavoro.
Silvia Morini
UIL Frosinone
(*Fonti “La Repubblica”
http://www.repubblica.it
http://www.lasinistrainforma.it)